L’1-2 di FED (mercoledì) e BCE (ieri) conferma, una volta di più, che la direzione è segnata. L’impressione è che i 2 Presidenti, Jerome Powell e Christine Lagarde, siano molto attenti a pesare le parole (più di una volta, soprattutto la seconda, hanno provocato reazioni dei mercati piuttosto negative), per non creare facili aspettative e non far nascere la sensazione che si arrivato il momento del “liberi tutti”.
Ormai nessuno parla più di rialzi dei tassi, cosa non così certa ad inizio autunno, quando ancora si riteneva che almeno un nuovo ritocco, entro dicembre, sarebbe stato possibile.
Evidentemente, il combinato disposto inflazione in ribasso – “vuoti d’aria” nella crescita economica ha portato ad accantonare, forse definitivamente, l’ipotesi di nuovi rialzi. Da più parti si evoca il fatto che, come nella fase in cui, un paio di anni fa, cominciavano ad esserci segnali di un surriscaldamento dei prezzi le Banche Centrali sono intervenute in ritardo, favorendo quindi la corsa al rialzo, allo stesso modo oggi, nel momento in cui i segnali di un rallentamento economico si fanno più insistenti, si proceda, soprattutto in Europa, un po’ troppo al rilento nell’intraprendere la discesa, con il rischio, quindi, che tra qualche mese ci si trovi in una situazione ben più grave.
Ecco, quindi, che si torna a parlare di “higher for longer”, vale a dire tassi fermi, sì, ma più alti per un periodo più lungo. Si torna a parlare di riduzione dalla seconda metà dell’anno, mentre, dopo il discorso di Powell, l’ipotesi di fine marzo sembrava più concreta. Peraltro, guardando ai “forward” (i futures) del tasso €uribor a 3 mesi, oggi vicino al 4%, notiamo che a 12 mesi sono “visti” al 2-2,50%. Quindi almeno 1,50% in meno rispetto all’attuale, il che significherebbe che 6 tagli da 0,25% cadauno sono un’ipotesi piuttosto realistica.
Tornando alle parole dei 2 chairman delle2 Banche Centrali, parole troppo ottimistiche avrebbero dato ulteriore “fuoco alle polveri” ai mercati, con il rischio di vedere le quotazioni di molti asset finanziari decollare ulteriormente, arrivando, in alcuni casi, ad evocare il “rischio bolla”. Senz’altro, pur assistendo, come più volte ribadito, ad un rallentamento del ciclo economico, i segnali di recessione permangono alquanto deboli, con l’occupazione, soprattutto quella americana, che rimane a livelli piuttosto elevati, “schiacciando” la disoccupazione vicino ai minimi storici (3,7%), mentre quella europea dovrebbe passare, nel 2024, dal 6,5 al 7,5%. Il mercato del lavoro, quindi, sembra destinato a mantenersi forte, grazie all’attività manufatturiera in via di stabilizzazione. Anche il settore immobiliare, vista la probabile discesa dei tassi, potrebbe riservare qualche sorpresa positiva dopo la pausa degli ultimi 12 mesi. Dell’inflazione si è già detto in questi giorni, con tutti gli indicatori che proiettano dati in netto calo da qui al 2026, quando dovrebbe essere rientrata al 2-2.10% (ma non si esclude che la progressione sia ancora più rapida). Senza dimenticare quello che sarà “l’evento dell’anno”, vale a dire le elezioni Presidenziali USA, che condizionerà non poco l’attività della FED (per quanto la politica non dovrebbe interferire con le vicende monetarie). E ben sappiamo come a sua volta la FED, visto il “ruolo guida” che la contraddistingue, possa condizionare altre Banche Centrali, in primis la BCE.
In assenza di recessione, con un’inflazione che tende a scendere e, aggiungiamo, i tassi che dovrebbero “pesare meno”, è difficile pensare che l’anno che verrà sarà un anno di “correzioni”. Magari qualche pausa (fattore spesso salutare), in corso d’anno, potremmo averla, ma una discesa delle quotazioni è un’ipotesi al momento remota; di contro, i prezzi delle obbligazioni, dopo il difficilissimo 2022, che ha avuto “un’invasione di campo” almeno per il primo semestre di quest’anno, continuando nella loro ascesa, dovrebbero spingere al ribasso i rendimenti, anche se sarà impossibile tornare a tassi a zero se non addirittura sotto zero, come eravamo abituati almeno sino a 2 anni fa in buona parte del mondo.
Ieri sera nuova seduta positiva per il mercato statunitense, dove solo il Nasdaq non ha chiuso con il segno verde (– 0,15%), mentre il Dow Jones è cresciuto di un altro 0,43% e lo S&P 500 dello 0,26%.
Nell’ultima giornata della settimana, a Tokyo il Nikkei cresce dello 0,87%, con un rialzo settimanale del 2,3%.
Forte incremento, a Hong Kong, dell’Hang Seng, che sale del 2,34%, sotto la spinta della nuova iniezione di liquidità (circa 800 MD di yuan, vale a dire oltre $ 110 MD) da parte della Banca Centrale cinese.
Al palo, invece, Shanghai, che cede lo 0,56%.
Futures ancora una volta positivi ovunque, con rialzi intorno allo 0,25/0,30%.
Torna verso l’alto il petrolio, con il WTI che recupera quota $ 70 (71,81), in ulteriore crescita questa mattina.
Stabile il gas naturale Usa ($ 2,396).
Oro che si “arrampica” ancora un pochino (+ 0,29%), arrivando questa mattina a toccare i 3 2.052,70.
Spread a 166,7, con il BTP al 3,78%, minimo dallo scorso mese di gennaio.
Bund 2,10%.
Treasury 3,94%.
Ancora debole il $, con €/$ a 1,0994.
Bitcoin a $ 42.663-
Ps: Lionel Messi avrà pur scelto una sorta di “esilio dorato”, approdando al calcio “giocato” negli stadi americani, non certo “quello che conta”, ma rimane pur sempre un richiamo fortissimo (che poi è appunto la motivazione per cui è stato chiamato ad “esibirsi” da quelle parti). Lo conferma quanto successo ieri a New York, durante un’asta che si è tenuta da Sotheby’s relativa ad alcune magliette da lui indossate durante i Mondiali di calcio dello scorso anno, vinti, come ricordiamo, dall’Argentina. 6 magliette, tra cui quella indossata nel primo tempo della finale mondiale, sono state vendute per $ 7,8 ML. C’è da sperare che chi le ha comprate si ricordi di non lavarle in lavatrice a 90°…